cinture di salvataggio autogonfiabili

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giubbotti autogonfiabili
Ufficialmente si chiamano “cinture di salvataggio autogonfiabili”, sono state equiparate dalla legge italiana ed europea a quelle “a stola a galleggiabilità intrinseca”, cioè i tradizionali giubbotti salvagente rigidi. Possono quindi sostituire questi ultimi come dotazione di bordo (e sono obbligatori per chiunque navighi oltre i 300 metri dalla costa) purché ad attivazione automatica (si gonfiano da soli a contatto con l’acqua) e marchiati CE. Ne abbiamo allora provati 12 diversi modelli, non per metterli “l’uno contro l’altro”, quanto per capire come funzionano, come vanno utilizzati e di quale manutenzione hanno bisogno. Se infatti nel nord Europa e negli Usa sono molto diffusi ormai da anni, per il mercato italiano sono ancora una novità, per la maggior parte dei diportisti tutta da scoprire. L’idea di base è “geniale”, sono più leggeri, più comodi, più “potenti” (150 Newton di spinta contro i 100) di quelli tradizionali. Ma, lo ribadiamo, vanno conosciuti e capiti. A differenza dei “vecchi” giubbotti rigidi che non richiedono quasi nessuna attenzione (tanto che vengono spesso delittuosamente “dimenticati” in fondo ai più inaccessibili gavoni) gli autogonfiabili sono dotazioni di sicurezza personali, attive, evolute, non si possono semplicemente indossare al momento del bisogno. Obiettivo di questo articolo è proprio un avvicinamento ragionato a questi nuovi oggetti, destinati a diventare sempre più diffusi, anche nei nostri mari. La loro forza risiede prima di tutto nella reale utilizzabilità. Se infatti i salvagente rigidi a stola, per la loro scomodità e per l’eccessivo ingombro, non vengono praticamente mai indossati preventivamente (in genere solo quando si tratta di abbandonare la nave), quelli autogonfiabili si possono tenere addosso senza praticamente accorgersene, diventando un’efficace strumento di difesa in caso di uomo a mare. Sono quindi migliori, perché il loro utilizzo da parte di chi va per mare è sicuramente più facile e quindi più probabile (ovvero “meglio loro che nulla”).

Il test si è svolto prima in piscina,
all’Apt di Pavia, poi in barca, sull’Altair di Vela e Motore a Marina di Ravenna. In vasca abbiamo fatto indossare i dodici modelli sempre al nostro “provista” Alberto Mariotti (1,83 metri di altezza per 75 kg di peso) e abbiamo misurato: il tempo impiegato dai giubbotti a gonfiarsi completamente una volta a contatto con l’acqua; la capacità o meno di raddrizzare “l’uomo a mare” dalla posizione orizzontale a faccia in giù fino a quella verticale (con la testa fuori dall’acqua e le vie respiratorie libere); la loro vestibilità da chiusi; come agivano sul “naufrago” una volta aperti, con una particolare attenzione alla loro capacità di tenere la bocca e il naso lontani dall’acqua.
Il provista, in piedi sul bordo della piscina, si è fatto cadere sempre nello stesso modo a pancia in giù, vestito con la cerata, simulando probabilmente le più “dure” condizioni da superare per i giubbotti, chiamati a raddrizzarsi partendo dalla posizione più svantaggiosa. Sottolineiamo subito che il nostro non era, e non voleva essere, un test come quelli effettuati per le omologazioni CE. Questi ad esempio si svolgono con l’uomo in costume da bagno, per cercare di introdurre il minor numero di variabili e quindi per omologare tutti i giubbotti secondo gli stessi criteri. Noi invece abbiamo cercato di simulare una situazione reale (quando si cade in mare in genere si sta navigando in condizioni in cui la cerata è necessaria) nella sua versione più pessimistica (facendo cadere l’uomo, di piatto e a faccia in giù, non di spalla o di schiena) per capire la resa reale dei giubbotti. Vi racconteremo più avanti, parlando dei risultati del test, che questa differenza, in costume o in cerata, è fondamentale.
In barca, sull’Altair, abbiamo invece preso in esame le qualità di questi giubbotti anche come cinture di salvataggio (qui nasce una immediata confusione di termini: per la definizione di legge “cinture di salvataggio” sono i giubbotti salvagenti, autogonfiabili o meno, mentre nel linguaggio comune, e in quest’articolo, è il classico imbrago che, insieme al suo “cordone ombelicale”, serve ad assicurare l’equipaggio alla barca). E’ questo ovviamente un aspetto fondamentale da valutare, tra le virtù degli autogonfiabili c’è proprio la loro versatilità che li rende strumenti di sicurezza su due fronti in caso di uomo a mare: prima per restare sempre in contatto con la barca, poi per garantire galleggiabilità se questo dovesse venire a mancare.

giubbotti autogonfiabili

Ma funzionano?

In linea di massima si, i risultati del nostro test sono nel complesso positivi. Dei 12 giubbotti 9 hanno “fatto il loro dovere”, tre hanno messo in mostra comportamenti anomali. Il Challenger della ISG era assemblato male, la camera d’aria era montata al contrario nella sua custodia con cintura di salvataggio. Un’anomalia che ha fatto ovviamente aprire in maniera asimettrica il giubbotto che comunque riusciva a tenere a galla l’uomo, con naso e bocca fuori dall’acqua, pur costringendolo ad una posizione molto scomoda, migliorabile leggermente togliendo un po’ di pressione attraverso la valvola orale. Il Baltic Winner aveva un problema simile ma meno grave. Non era assemblato in maniera difettosa ma semplicemente mal piegato, la parte superiore della camera d’aria era infatti rivoltata su stessa. Una volta gonfio riusciva a tenere l’uomo in una posizione quasi normale, arrecandogli comunque un notevole disagio nell’indossarlo. Anche qui la situazione migliorava decisamente togliendo tensione con la valvola. Abbiamo provato a ripiegare bene il Baltic e a rigonfiarlo: tutto si è svolto regolarmente.
Il Plastimar invece ha fatto registrare un tempo superiore alla media per il gonfiaggio 35” contro i 5” di media di tutti gli altri (fuori quota, anche se in misura minore, anche Arimar che ha fermato il cronometro dopo 16”). Abbiamo, rifatto il test tre volte, registrando tempi tra i 15 e 17”. Il “collo di bottiglia” era all’altezza della valvola, il passaggio dell’aria dalla bombola alla camera d’aria era meno rapido rispetto agli altri giubotti. La bombola era infatti particolarmente dura da avvitare e probabilmente nella prima installazione, quella del nostro test in piscina, non era stata portata fino in fondo nella sua filettatura e questo ha fatto si che il ”grilletto” che rompe la membrana della bombola al CO2 non lavorasse fino in fondo (ed è interessante notare che anche Arimar montava le stesse valvole, non adottate da nessuna altro). Nelle altre due prove in cui noi abbiamo avvitato fino in fondo la bombola i tempi sono scesi a 15” e 17”. Un’altra causa può essere la formazione temporanea di ghiaccio sul foro di passaggio per la rapida espansione del CO2. Resta comunque da registrare la differenza rispetto a tutti gli altri modelli.
Abbiamo definito questi risultati positivi ma, direte voi, tre risultati “anomali” su 12 modelli provati, cioè il 25%, è un dato più che preoccupante. Ma va fatta una importante precisazione. Noi i giubbotti li abbiamo voluti provare così come capiterebbe di farlo a un qualsiasi diportista nel caso del bisogno. Cioè senza averli mai prima provati, studiati, collaudati. Semplicemente indossandoli e attivandoli. E’ questo un atteggiamento sostanzialmente “ignorante”. I giubbotti di salvataggio autogonfiabili sono strumenti nella loro concezione generale molto semplici, ma poi complessi nel loro assemblaggio e manutenzione. Vanno quindi capiti e curati. Dei tre giubbotti “anomali” di cui parlavamo prima due sono stati rimessi in efficienza direttamente da noi (nel ruolo di normali diportisti) uno solo andava rimandato alla casa, solo quest’ultimo (ISG) aveva quindi un’anomalia che non poteva essere evitata con un controllo preventivo . Questa è una conferma di come chiunque scelga di utlizzare i giubboti autogonfiabili sia necessariamente chiamato ad un dovere di controllo su di loro. Siamo difronte ad oggetti per la sicurezza “attiva”, con il diportista che diventa attore e non semplice utilizzatore.

Il ribaltamento 

Un solo giubbotto ha superato la nostra prova di ribaltamento dell’uomo, passivo in acqua orizzontale e a faccia in giù, il Lalizas. Come dicevamo in apertura il nostro è stato un test ben diverso da quello di omologazione CE, che prevede che l’uomo in acqua sia in costume anziché in cerata. La presenza di quest’ultima comporta una spinta positiva (verso l’alto) proprio della parte basse del corpo, contribuendo quindi a tenere la testa del “naufrago” in acqua. Per quanto possa sembrare assurdo, indossare scarpe o stivali pesanti (come quelli di pelle) può aiutare a portarsi verso la posizione verticale.
Queste considerazioni ci fanno capire perchè tutti i giubbotti omologati non hanno superato il nostro test a parte il Lalizas che, pur chiamandosi Omega 150 ha una spinta di 190 newton. Attenzione però a non credere che avere più Newton sia sempre meglio. Indossare giubbotti “troppo potenti” può essere controproducente, se indossati da soggetti troppo leggeri, possono esser troppo costrittivi e diventare troppo instabili.

le valvole

Sono tre le “grandi famiglie” di valvole che comandano il gonfiaggio automatico dei giubbotti: a sale, a carta e idrostatiche. La prima è la più diffusa, e si basa su un principio di funzionamento semplicissimo, a contatto con l’acqua una pastiglia di sale si scioglie e libera una meccanismo a molla che va a perforare, tramite un piccolo “grillettino”, la membrana della bombola di CO2 che gonfia la camera d’aria. Molto simile il funzionamento di quelle a carta, in questo caso è un minuscolo rocchetto di pellicola di cellulosa che, impregnandosi d’acqua, si dilata e innesca il meccanismo di apertura.

Le valvole idrostatiche si attivano invece per la pressione che aumenta quando il giubbotto viene immerso in acqua. In tutti e tre i casi il meccanismo è messo nella parte bassa del giubbotto, quella che si presume arrivi prima a contatto con l’acqua in caso di uomo a mare, e la custodia in questa zona rimane semiaperta, proprio per favorire l’impregnazione della valvola. Quelle idrostatiche hanno essenzialmente il vantaggio di garantire meno rischi di apertura involontaria. Le pasticche al sale o di carta possono infatti inumidirsi in maniera indiretta all’interno di un gavone, se al suo interno c’è un infiltrazione d’acqua, come addosso di chi è in coperta. Questo secondo caso, così come è emerso dal nostro test, è comunque molto raro. Abbiamo infatti abbondantemente “annaffiato” (con la manichetta in banchina) e preso a secchiate di acqua di mare i giubbotti con questo tipo di valvole, senza che nulla accadesse; serve, per farle agire, una vera e propria immersione. E i prezzi? Il sistema al sale costa decisamente meno, per la manutenzione ordinaria basta cambiare la sola pastiglia, i cui prezzo si aggira sui 5 euro, una valvola idrostatica ne costa invece circa 40. E’ però vero che la prima va cambiata almeno tutti gli anni mentre la seconda ha una durata garantita di cinque anni. In caso di sostituzione dopo un ciclo di funzionamento va ovviamente sostituita, in entrambi i casi, anche la bombola di CO2 il cui costo è di circa 10 euro. A favore del sistema a sale (o a carta) c’è anche una facilità di sostituzione delle valvole molto maggiore, con un’operazione che dura pochi minuti. Più complessa, ma comunque fattibile, la sostituzione di quelle idrostatiche.

Due esempi di valvole: a destra una a carta, a sinistra una a sale

valvola giubbotto autogonfiabile

valvola giubbotto autogonfiabile

Le verifiche

Ogni anno, meglio se all’inizio della estiva, o comunque prima di ogni navigazione impegnativa controllate sempre che:
* la pastiglia di sale (o di carta) sia in perfetto stato, che non sia rovinata dall’umidità. Nel caso sostituitela con una nuova. Tutte le valvole hanno un indicatore verde quando valide, rosse quando già utilizzate.
*il pressostato non abbia superato la data di revisione, in tal caso va sostituito.
* che la membrana della bomboletta di anidride carbonica sia integra e che la bomboletta non sia arrugginita (non sarebbe una cattiva idea, visto anche il prezzo contenuto, sostituirla una volta all’anno).
* la tenuta della camera d’aria sia perfetta. Gonfiatela con un piccolo compressore per gommoni (mai a fiato: il vapore acqueo favorisce la formazione al suo interno di muffa) e verificate che non vi sia alcuna perdita e che rimanga ben gonfia per almeno 24 ore.
* la sicura dello strappo per l’attivazione manuale sia integra. Visto che è molto fragile può accadere che si rompa inavvertitamente, nel caso sostituitela.
* Come per un paracadute, la ripiegatura. La nostra prova ha dimostrato che spesso non è ottimale. I manuali indicano (quasi sempre) come effettuare l’operazione.
* non vengano lasciati mai i giubbotti nei gavoni, è il posto peggiore della barca: durata e affidabilità di pastiglie, pressostati e bombolette si riduce drasticamente.

La scelta

Ma allora quale scegliere, tra i 12 modelli provati? Ovviamente non esiste un risposta univoca, ma alcune considerazioni nascono spontanee. Se i giubbotti autogonfiabili, come dicevamo in apertura, sono sempre meglio di quelli rigidi perché realmente utilizzabili (e non così ingombranti e scomodi da indossare) devono poter essere anche accessibili da un punto di vista economico. Siamo d’accordo con Umberto Verna, di Safety World, società specializzata nella sicurezza in mare, quando dice che chi cerca solo la perfezione non aiuta nessuno. Fare i giubbotti “perfetti” comporterebbe farli diventare anche i più costosi, sulla base di un prezzo medio di partenza già, a nostro avviso, eccessivo. Quindi, sempre nell’ottica della “accessibilità” alla sicurezza, bisogna trovare un giusto compromesso tra qualità e prezzo, tra perfezione e vendibilità.
Da questo punto di vista ci sono piaciuti Avon e Bfa, un buon esempio di come si possa cercare questo compromesso. Modello migliore in assoluto è probabilmente il Mullion, ma il suo prezzo (frutto della sua vocazione ull’utilizzo professionale) lo rende un oggetto ben difficile da trovare sulle normali barche da crociera.
Chiudiamo infine raccomandando, ancora una volta, un’accurato studio del proprio giubbotto autogonfiabile, a partire da una lettura attenta delle istruzioni, passando poi per un vero collaudo in proprio e poi per la verifica periodica. Quello che prima di tutto abbiamo capito da questo test è che fare almeno una volta un prova pratica con il proprio (perchè sono dotazioni personali) giubbotto è fondamentale. E non a caso negli USA alcune case quando vendono un salvagente autogonfiabile consegnano anche un kit di ricambio per la valvola. Un buon modo per incoraggiare l’autoresponsabilizzazione dei diportisti.

Ma prima di tutto sono le cinture..

Giubbotti si, ma prima di tutto cinture di salvataggio. Il modo migliore per evitare il rischio di affogamento è, ovviamente, non cadere in acqua. La valutazione di queste dotazioni di sicurezza va quindi fatta anche (e senza considerarla meno importante) nell’ottica della loro efficienza proprio come cinture di salvataggio (attenzione a non fare confusione con i termini, la definizione “burocratica” di legge dei giubbotti è sempre “cinture di salvataggio” , autogonfiabili o meno, mentre nel linguaggio comune queste parole definiscono l’imbrago che, insieme al “penzolo” o “cordone ombelicale”, tiene assicurati alla barca). Requisiti fondamentali sono: cintura e bretelle robuste che, quando in tensione, lavorino ben alte sotto le ascelle e non a metà schiena; un sistema di aggancio semplice e solido, in acciaio inox; un meccanismo semplice per regolare la tensione della cinghia in vita, questa infatti deve sempre essere tenuta ben tesa e aderente al corpo (senza dover ricorre a contorsionismi). In quest’ottica ci sono piaciuti: Baltic, Bfa, Avon e Besto.

fonte: www.velaemotore.it

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